Ora che la faccenda di Robin Good si è conclusa per il meglio, posso dire la mia con serenità.

Che io, pur apprezzando il personaggio, non condivida il suo modo di fare alcune cose non è certo un mistero. Ma al di là di questo, ritengo che dei molti post scritti sull’argomento tra i più rappresentativi delle diverse interpretazioni del fatto vi siano quelli dei due Marchi (Cattaneo e Calzolari).

  • Il primo sostiene che Robin Good abbia peccato di ingenuità (nella migliore delle ipotesi) nell’affidarsi ad un solo canale di promozione. Come dargli torto?
  • Il secondo pone una vera e propria “Questione Digitale”. Come dargli torto?

Cattaneo e Camisani mettono in evidenza due grandi problemi che nascono da quello che è successo a Master New Media e che – in sostanza – vanno ben al di là della specificità del caso di Robin Good.

Il problema che pone Marco Cattaneo è di Merito, quello di Marco Camisani Calzolari è di Metodo.

Nel merito, un business model come quello di Robin Good ha dei risvolti suicidi ora decisamente evidenti anche allo stesso Robin Good. Parlare con tanta foga di editoria indipendente per scoprirsi poi completamente dipendenti da Google non deve essere così entusiasmante. E il business model di Robin Good – come del resto quello di migliaia di altre piccole e medie iniziative editoriali e non – è strettamente connesso alle decisioni ed agli eventuali capricci di Google. Non mi sentieri tanto indipendente se vivessi con la gola in una ghigliottina che sta a Mountain View.

Nel metodo, in effetti è difficile non metterla, la testa, nella ghigliottina, vista la condizione di monopolio di fatto di Google, che rende assolutamente leciti alcuni dei dubbi che si pone e che ci pone Marco Camisani Calzolari.

Di fatto oggi Google è il gateway verso l’informazione. La visibilità o la scomparsa dal mondo digitale (e quindi da una buona metà del mondo, mi verrebbe da dire) dipendono da un solo attore. Un attore che ci invita a non essere malvagi (e di fatto a non fidarci degli altri malvagi), ma che per primo ha tutte le carte per esserlo. E che quando vuole sa esserlo (si pensi alla questione cinese, ad esempio).

Ne ho parlato in tono evidentemente satirico qualche tempo fa, ma ritengo che la questione sia decisamente seria. Google è un’azienda privata, è vero, ma non per questo deve necessariamente poter fare ciò che vuole. Oggi il mondo “digitale” ed il mondo “analogico” sono sempre più inestricabilmente connessi. I diritti degli “abitanti” della rete prima o poi dovranno diventare un tema di rilievo per chi si occupa di diritto, un diritto che oggi è ancora completamente analogico, in un mondo che analogico non lo è più da tempo.

Se è vero che l’informazione pubblica è un bene comune, come tale deve essere trattata. Nè il fatto di essere un attore privato, nel momento in cui il proprio operato nella sostanza impatta sulle azioni della collettività, può esimere tale attore dal dover affrontare il problema. Già avviene (o dovrebbe avvenire) nei diversi ambiti che vedono attori privati coinvolti nella gestione di risorse pubbliche. Dall’acqua al gas, dalle autostrade, alla dimensione fisica delle reti esistono norme e regole che gli attori coinvolti nella gestione dovrebbero essere tenuti a rispettare.

Non vedo perchè chi gestisce un bene pubblico come l’informazione (e gestire l’accesso all’informazione vuol dire nella sostanza gestire l’informazione) possa non doversene preoccupare.

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