A volte succedono cose che mi lasciano basito, perplesso e pure un po’ triste. Oggi giornata d’esami (di sabato, ahimè!). Tocca ad una ragazza (mai vista: non frequentante). Sguardo sveglio, forse un po’ intimorita, ma tutto sommato relativamente tranquilla.

L’esame procede… Si parla prima di comunità virtuali, quindi di altri argomenti, sino a che non mi viene in mente la fatidica domanda “Mi parli un po’ del Web 2.0“: sguardo vitreo, sorriso imbarazzato. “Bhè, in realtà questo argomento non lo conosco proprio“. Sono un po’ perplesso, ma meglio non insistere, passiamo ad altro. E l’altro prosegue su toni alterni, sino ad arrivare al momento del voto.

Pensavo ad un ventidue, sperando che lo rifiutasse per rivederla e chiederle di prepararsi qualcosa sul Web2.0, perchè sono convinto che un esame che si chiama “Comunicazione Interattiva” non possa essere superato senza nemmeno sapere cosa sia (anche solo per sentito dire) il Web 2.0. Ma prima che riesca a dirle il voto la ragazza, per giustificarsi delle sue lacune, mi fa questo discorso: “Sa, è che ho trovato lavoro, e da allora le mie priorità sono cambiate. Non mi interessano tanto le definizioni e le cose accademiche, sono focalizzata su quelle competenze che mi possono aiutare nel mio lavoro“. Un po’ perplesso chiedo: “e che lavoro fa?”. Risposta: “Lavoro in un centro media(…bhè, in effetti cosa c’entrano il Web 2.0, i blog, google, i social network e tutto ciò che ne consegue con il lavoro di un centro media???).

Ora io mi chiedo, può un giovane professionista (o aspirante presunto tale) non rendersi conto che un fenomeno del quale afferma candidamente non soltanto di non sapere nulla, ma anche di non volerne sapere, è in effetti qualcosa che sta mutando radicalmente quello che dovrebbe essere il suo lavoro?

Ma d’altro canto mi rendo conto che la colpa non è soltanto della mia ingenua studentessa, ma anche nostra. E per nostra intendo dell’Università: di un’Università – quella italiana – che ormai viene vissuta come avulsa dal mondo reale al punto che anche quando i corsi sono tutt’altro che lontani dal mondo del lavoro vengono percepiti come distanti da esso.

E quindi, da una parte c’è una studentessa (ma non è certo l’unica che ho visto negli anni) che è talmente lontana dalla consapevolezza di ciò che dovrebbe fare nel suo lavoro al punto da non immaginare nemmeno cosa dovrebbe sapere. Dall’altra c’è l’Università (cioè noi), colpevole di non averglielo fatto capire.

E tutto questo ci riporta – evidentemente – a due problemi più generali.

  • Da una parte l’incapacità di una parte dei nostri giovani di leggere il mondo nel quale dovrebbero muoversi e lavorare. Del mondo nel quale dovrebbero diventare professionisti, ed al più – ragionando come la mia incauta studentessa – riusciranno al massimo a diventare praticanti (o praticoni).
  • Dall’altra, la concezione del ruolo dell’Università, che viene vissuta troppo spesso come “accademia” anche quando non lo merita. E del termine stesso “accademia”, al quale viene conferita orma esclusivamente un’accezione negativa. “Accademico” è divenuto sinonimo di “lontano“, di “astratto“, di “avulso dal reale“. Di inutile insomma. Tutto ciò è in parte senz’altro vero, ma generalizzare vuol dire cancellare il lavoro di centinaia di persone che si adoperano perchè l’Accademia (con la A maiuscola) possa essere ben altro. Tempo fa, in un convegno al quale mi aveva (incautamente) invitato Veronica (la quale da allora mi ha tolto il saluto 🙁 ), si era sfiorato un importante discorso, quello del ruolo dell’intellettuale nella società contemporanea. E’ un discorso che – prima o poi – mi piacerebbe riprendere…

ah già, alla studentessa non ho proposto il 22, le ho direttamente chiesto di ripresentarsi

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