Nel numero della scorsa settimana de L’Espresso è iniziata la mia collaborazione con la rubrica Non Solo Cyber. Naturalmente, un grazie va ad Alessandro per avermi chiesto di affiancare altri amici che già vi scrivono. Come di consueto, riporto di seguito il pezzo pubblicato, per le vostre considerazioni.

Quando si parla di digital divide il pensiero corre subito al tema delle infrastrutture che mancano, della banda larga che non c’è e che quando c’è è sempre troppo stretta, della nostra congenita incapacità di usare il computer ed internet. Ci si consola pensando che con le nuove generazioni il problema sarà superato. Magari la banda sarà sempre poca, ma i ragazzi oggi considerano normale conoscersi su internet, usano Facebook come se fosse il muretto sotto casa, hanno il dito perennemente in azione sui tasti del cellulare. Problema risolto. Questione archiviata.

C’è però un rischio che si nasconde dietro la convinzione che i giovani – i cosiddetti nativi digitali – siano “naturalmente” affini alle nuove tecnologie. Il rischio di non rendersi conto di come essi siano spesso vittime di un’altra – più sottile – forma di digital divide.  Un digital divide culturale, che crea un divario tra chi usa gli strumenti e chi sa anche cosa sta facendo, tra chi usa Facebook e chi sa che Facebook è un social network. Per capirci meglio: una differenza simile a quella che c’è tra chi sa usare la macchina da scrivere e chi sa scrivere un buon testo.

Sostenere che i ragazzi che hanno affrontato l’esame di maturità conoscano i social network meglio dei loro insegnanti – indipendentemente dalla veridicità dell’affermazione – nasconde una inconsapevole delega di responsabilità nei confronti del problema del digital divide culturale. Tutto sta a capire se vogliamo una generazione di scrittori o di scrivani digitali.