C’è una considerazione da fare, riguardo la tremenda vicenda di Sarah Scazzi. Pagine e pagine son state spese per tracciare arditi paralleli con la morte in diretta di Vermicino, o con il delitto di Cogne. Insomma, i casi nei quali una storia – di solito una storia di morte – è stata vissuta in diretta. Pagine e pagine sono state spese per interrogarsi su quanto sia stato etico, o meno, il comportamento di certi giornalisti. Ma il comportamento dei giornalisti non cambia nel tempo. Ci sarà sempre il giornalista pronto a chiedere come si sente ad una madre che ha appena perso un figlio.

Tuttavia non è di questo che voglio parlare. Non è questa la considerazione che mi preme condividere qui con voi. Ciò che mi interessa in questo caso è il ruolo dell’informazione giornalistica nel mutato contesto dei media, ed il suo rapporto con i media conversazionali.

Guardando la vicenda di Sarah Scazzi da questo punto di vista, la triste considerazione è che stiamo lentamente assistendo ad una vera e propria resa del giornalismo nei confronti di un mutato contesto di scenario (non solo tecnologico). Resa che non è di tutti i giornalisti, è ovvio, ma che per molti è peggio di una sconfitta.

Resa che parte da una considerazione: quando si parla del rapporto tra giornalismo tradizionale e citizen journalism, tra carta stampata e blog, tra informazione “dall’alto” ed informazione “dal basso” (che brutte  categorie!) la posizione di chi difende l’immutabile ruolo del giornalista è sempre la stessa. Ossia che il giornalista non si limita a trasferire informazioni, ma le elabora, le commenta, le articola in maniera tale da facilitare la comprensione dei fatti per il lettore, o per lo spettatore. Il giornalista ha la responsabilità di veicolare l’informazione verificandone le fonti, trasformando i dati ai quali tutti possono arrivare con facilità in informazioni ed interpretandoli per il suo utente. E questo può farlo forte della sua deontologia, della sua etica, della sua professionalità.  Si può essere d’accordo, come si può sostenere che il processo di rimediazione “giornalistica” dell’informazione non è più esclusivo dei giornalisti.

Ma in questo caso non è questo il punto. Anche ammettendo che quanto sopra esposto sia vero, e che segni la differenza tra i giornalisti ed il resto del mondo, mi chiedo dove stia finendo tutto ciò. Mi chiedo dove sia finito nel caso di Sarah Scazzi, che mi interessa – in questo ambito – esclusivamente come indicatore di una tendenza alla quale i giornalisti paiono essersi arresi senza combattere. La tendenza a riportare l’informazione così com’è, giusta o sbagliata, veritiera o meno. Purchè in tempo reale o quasi. Dov’è il ruolo del giornalista nel momento in cui le trasmissioni televisive si limitano ad aprire una finestra nelle vicende e le riversano sugli spettatori che – morbosi o impotenti – si trovano ad ascoltare registrazioni di verbali di confessioni già sconfessate, o ricostruzioni basate sul nulla? Dov’è quel ruolo di responsabilità – utile, importante, indispensabile – che porta il giornalista a raccontare una storia ed informare su un fatto, piuttosto che non sparando questo fatto nell’etere in maniera acritica e quasi violenta?

Qual’è la differenza tra una trasmissione televisiva nella quale il valore aggiunto dichiarato dagli stessi giornalisti è la telecronaca in diretta della realtà ed un canale su youtube? Qual’è la differenza tra un giornalista e chi si limita a trasferire un informazione? Qual’è, oltre al possesso di una tessera?