Ho da poco pubblicato un libro, con alcuni colleghi. Poco dopo aver chiuso per la stampa il nostro libro (neanche a dirlo), sul sito del Cordis (http://www.cordis.eu/) è stata rilasciata l’ultima edizione dell’Innobarometer, ossia lo strumento utilizzato dall’Unione Europea per misurare il livello di innovazione dei paesi che la compongono. L’attenzione, quest’anno ancora più degli anni scorsi, è sul concetto di cluster quale strumento di facilitazione ai processi di innovazione.
Cos’è un cluster? Utilizzo per semplicità la definizione data nel documento:
“Economists often talk about so-called clusters. Clusters are geographically close groups of interconnected companies, suppliers, service providers, and associated institutions in a particular field. In a cluster all these actors are linked in several ways. These include their similar situation (e.g. same working sector, common market, common problems to face) and their complementary functions (e.g. university labs can help private firms; several firms can develop new products together, or enter new markets together). Clusters are often working in a particular region, and sometimes in a single town.”
L’enfasi sul concetto di cluster (enfasi forse un po’ tardiva, da parte dell’Innobarometer, visto che è alla sua sesta edizione!) non fa che ribadire come l’innovazione, a differenza dell’invenzione, richieda un vero e proprio humus nell’ambito del quale svilupparsi e crescere. Non a caso, i paesi più competitivi sono proprio quelli che hanno meglio sviluppato processi di filiera assimilabili ai cluster descritti nell’Innobarometer.
E l’Italia? Basta conoscere (ahimè) la storica condizione dei nostri distretti industriali, per rendersi conto dell’ennesima occasione mancata. Nel nostro contesto – caratterizzato da una più che decennale tradizione orientata alla (teorica) valorizzazione del concetto di distretto industriale – i cluster richiamano concetti ancora decisamente distanti dalle logiche di business delle nostre aziende. O, meglio (anzi peggio), malgrado il fatto che il nostro Paese risulti uno di quelli nei quali la penetrazione di aziende operanti in un contesto cluster like sia più significativa, esso non risulta praticamente mai tra i paesi che da tale condizione traggono un vantaggio competitivo ai fini dei processi di innovazione.
Con questa pillola di ottimismo, promettendo (o minacciando) di tornare a parlare a breve di questi temi, vi lascio alla lettura dell’Innobarometer 2006, accessibile sul sito del cordis.
Un saluto a tutti!
.s.e.
Salve,
pur condividento le linee generali del suo intrvento mi permetto di citarLe un esempio in cui un sistema cluster-like ha portato dei decisi vantaggi in termini di innovazione, soprattutto di processo. Se pensa al distretto trentino del porfido tutte le piccole aziende operanti nel settore promuovono e studiano innovazioni da applicare ai costosi progetti di lavorazione del materiale estratto, dando un bell’esempio di come anche un piccolo cluster (le dimensioni sono ridicole a confronto di altri distretti veneti e lombardi) possa fare la sua parte nel processo di innovazione. Credo che il problema della scarsa ricettività all’innovazione in Italia sia maggiormente da imputare ad una classe manageriale vecchia (sia di età che di testa) che crede ancora di potersi confrontare sul mercato vendendo prodotti che “costino poco” e funzionino. Non rendendosi conto di operare in una situazione di mercato in cui queste politiche si rivelano tragici errori.
Saluti,
Davide
@Davide
sono diversi, in effetti, i casi di successo (per fortuna). E concordo con lei sul fatto che una buona parte del problema sia nella nostra classe manageriale. E’ anche questa a costituire l’humus del quale parlavo nel post.
Un cordiale saluto!