Indigeni Digitali. Questo è il nome che Fabio Lalli ha dato alla sua bella ed interessante iniziativa. La sua mission,  che è insieme un manifesto culturale e la dichiarazione di una linea d’azione, è del tutto condivisibile. Quello che non va, secondo me, è il nome. Indigeni Digitali.

Indigeno è chi è nato nel luogo in cui vive. E quindi, di fatto, il termine è un sinonimo di Nativo. Questo genera due considerazioni ed un problema. Partiamo dalle considerazioni:

  • L’indigeno digitale è un nativo digitale? Non serve un etnografo (digitale pure quello) per rendersi conto del fatto che il gruppo degli Indigeni Digitali di Fabio raggruppa anche persone che – per banali questioni anagrafiche – Nativi Digitali (e quindi indigeni) proprio non possono essere. Di conseguenza, gli indigeni digitali spesso non sono tali, in quanto non sono nativi digitali.
  • Da questa prima considerazione, discende la seconda: ha senso parlare di Indigeni Digitali piuttosto che di Nativi Digitali quando i nativi digitali sono implicitamente anche indigeni? Non si corre il rischio di creare confusione nel già confuso scenario fenomenologico delle “etnie” digitali? (è finito il tempo in cui bastavano i nerd. Ora tra geek, indigeni e compagnia la cosa si complica).

Ma fin qui siamo al divertissement terminologico: veniamo a quello che definirei come il vero problema di fondo che fa si che non mi piacerebbe troppo essere un indigeno, ancorchè digitale.

La storia, recente e meno recente, ci insegna che di rado gli indigeni fanno una bella fine. Le popolazioni indigene, infatti, sono quelle che di solito vengono spazzate via da popoli conquistatori che ne distruggono la cultura (indiani, maya, chi più ne ha più ne metta). Perché? Di solito la motivazione è sempre la stessa: l’incapacità di adattarsi al cambiamento.

L’indigeno, ossia colui il quale ha sempre visto la realtà in un determinato modo, ha grandi difficoltà ad adeguarsi quando questa realtà cambia. In realtà siamo tutti indigeni, ognuno nel suo luogo. Ma quando questo luogo diventa il “digitale”, in cui i cambiamenti sono rapidi e repentini, la cosa rischia di diventare pericolosa.

Non è un mistero che non abbia mai particolarmente apprezzato la definizione di Nativo Digitale. Il termine nasconde una sorta di sottesa deroga di responsabilità verso i nostri giovani e nasconde il problema derivante dal fatto che è necessaria una vera e propria media literacy, una alfabetizzazione alla cultura delle Reti (e non agli strumenti) che non si acquisisce semplicemente per diritto di nascita. Lo stesso, ma aggravato da un carico simbolico maggiore, è vero per gli “indigeni”, che tradizionalmente sono considerati incapaci di adattarsi al cambiamento.

Essere “nati” nell’era digitale è per certi versi un vantaggio, per altri uno svantaggio. Non sapere cosa fosse il mondo prima dell’avvento del digitale, infatti, può essere un handicap non da poco, in un mondo che cambia rapidamente. Soltanto avendo una prospettiva d’insieme, infatti, ci si può adattare bene a questo cambiamento e magari determinarne gli esiti. Soltanto avendo consapevolezza di ciò che c’era prima si può costruire per il dopo. Per questo preferisco – al limite  – la definizione di Marco o Maurizio, che parlano di Esploratori Digitali. Insomma, se dovessi “sentirmi” un indigeno digitale, dovrei cominciare a preoccuparmi  dello sbarco di Pizarro.